Il maniscalco

Ancora a metà degli anni cinquanta, nonostante
il paese di Telgate avesse imboccato la strada dell'industrializzazione, si potevano contare più di cinquanta cavalli nelle stalle.
La riprova si aveva durante la festa di S. Antonio da Padova, occasione in cui si teneva sul sagrato della chiesa la benedizione delle bestie.
Lungo un tratto di via Torre, i cavalli erano disposti in fila, strigliati e coi finimenti luccicanti nitrivano scalpitando, nell'attesa che terminata la messa alta, l'arciprete uscisse in piviale a benedirli insieme ai cavalieri. Si benedivano anche gli automezzi, per lo più motocarri e trattori e qualche vettura, ma a quel tempo talmente scarse che si potevano parcheggiare tutte, insieme, davanti al monumento ai caduti.
Poi, subito dopo, i cavalli partivano spronati al galoppo intorno alla piazza, con tutta quella ridda di versi, di gesti e di mosse tipiche dell'ippica, gridati dai rispettivi e (benedetti) padroni.
Gli automezzi venivano accesi dopo, e quand'anche fosse vero che la potenza di quei motori venisse misurata in "cavalli" qualche burlone osservava quanto fosse inutile averne così tanti nel motore se poi alla guida si trovava un "asino". Dopo la benedizione, nella piazza restava persistente il puzzo di stallatico e di nafta mista ad olio, con qualche "ricordino" lungo la via acciottolata, immediatamente raccolti dalle massaie per ingrassare i vasi di fiori.
Restavano, ed era considerato una vera e propria fortuna trovarli, alcuni ferri da cavallo, perduti durante la frenetica corsa, si opinava che raccoglierli equivalesse per una ragazza nubile "trovarsi il marito entro l'anno", mentre per un uomo poteva esservi la vincita di una grossa somma alla
"SISAL" (antico nome del Totocalcio). Ecco forse spiegata la ragione della loro gelosa conservazione sugli stipiti delle porte e sulle cappe dei camini, come autentici portafortuna. Il risultato di questa festa era un considerevole andare e venire la mattina dopo dal maniscalco Vavassori Francesco che doveva farsi in quattro per ferrare, a nuovo, parecchi cavalli. Tin, tin, tah, tah, il rumore che si sentiva nella sua fucina di maniscalco in via Cesare Battisti, intento fin dall'alba a sagomare pezzi di ferro roventi sull'incudine; ad ogni colpo di martello l'incandescente metallo prendeva forma, fino ad assumere quel caratteristico aspetto ricurvo con quei due riccioli terminali ripiegati all'indietro, prima che il rosso del ferro tendesse al bruno.
Fuori il cavallo, con lo zoccolo sollevato, e la cavezza attaccata all'anello infisso nel muro, attendeva paziente che il maniscalco finisse la preparazione della sua nuova calzatura. Il Vavassori usciva in seguito sulla via con una grossa raspa e urlava al cavallo "poggia!" questi si lasciava prendere la zampa che il maniscalco appoggiava sul ginocchio protetto da un pesante grembiale di cuoio. Livellata la superficie, provava il ferro e misurava la lunghezza dei chiodi che, conficcati nella parte dura dell'unghia, permettevano al ferro di adattarsi perfettamente allo zoccolo.
Dopo quest'operazione, tra maniscalco e bestia iniziava un vero e proprio colloquio. Il cavallo poneva per terra la zampa e provava il ferro nuovo appoggiando tutto il suo peso sull'arto in questione proprio come facciamo noi quando siamo alle prese con un paio di scarpe nuove. Se avvertiva qualche dolore per via dei chiodi o per qualche altro problema, rialzava subito la zampa sbruffando, e il maniscalco si rimetteva all'opera.
Francesco Vavassori
ultimo maniscalco di Telgate



Solo dopo aver fatto alcuni passi, accompagnato in tondo dolcemente con la cavezza ed accennando un nitrito, la bestia dava il suo benestare per lavoro eseguito. Era quello il momento per il maniscalco di riconsegnare il cavallo al barbaresco (nome che veniva attribuito a chi accudiva cavalli nelle scuderie). Il maniscalco, il barbaresco, il cavallantino (dai caratteristici calzoni), Il fiaccheraio, il landò a due ruote, il biroccio, la biada, la cavezza, lo scudiscio, il garrese, etc. etc. sono una serie di termini e nomi che risulteranno perfettamente sconosciuti al mondo giovanile, parole che se fossero usate nel linguaggio corrente, andrebbero (a torto) sottolineate in blu dai professori d'italiano, considerandole un "arcaismo". Invece dovrebbero sapere che, nella memoria storica di un paese agricolo, come era appunto Telgate fino a qualche decennio fa, erano tranquillamente usate; ben sapendo che dietro ogni parola era celato un profondo significato, un'arte, un mestiere,una storia... ma che storia!

(dall'inserto dell'angelo in Famiglia n.10 di dicembre 2004)